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Omaggio a Giovanni di Jenzenstein

(This article expired 21.09.2011.)

Ambasciata della Repubblica Ceca presso la Santa Sede ha promosso in collaborazione con l'Arcivescovado di Praga e con l'Istituto Storico Ceco a Roma il giorno 21 ottobre 2010 alle ore 19.30 la serata commemorativa dedicata al terzo Arcivescovo di Praga, Giovanni di Jenzenstein. La serata commemorativa si è svolta nella Basilica di Santa Prassede (via Santa Prassede 9/A) sotto il patrocinio del I° Vice Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Ceca, Sig. Karel Schwarzenberg, e dell'Arcivescovo di Praga, Mons. Dominik Duka, OP, ed è stata dedicata a tutti coloro che hanno sofferto per la propria fede. Durante la serata si è svolto anche il Concerto di organo eseguito dal maestro Pavel Černý.

LASCITO - PROF.SSA ZDENKA HLEDIKOVA, CSc., DIRETTORE EMERITO DELL'ISTITUTO STORICO CECO A ROMA

 

Giovanni di Jenštejn (*1347/48 - +1400)

            Ci sono vari luoghi della Città Eterna in cui il visitatore si può imbattere in rimandi diretti o indiretti all’arcivescovo di Praga Giovanni di Jenštejn. Qui, nella basilica di Santa Prassede, Jenštejn è sepolto. L’anniversario della morte di questo personaggio ha fornito lo spunto per l’odierna serata celebrativa; per questo come prima cosa ci occuperemo in maniera abbastanza dettagliata dei suoi destini esistenziali. Ma permettetemi innanzittutto una piccola precisazione sulla forma del nome, così come lo avete trovato sull’invito: di Jenzenstein. Così si firma l’arcivescovo in tutte le fonti latine, e non esistono fonti d’epoca in altre lingue. In questa forma il nome è poi entrato nella letteratura specialistica e nelle enciclopedie di tutto il mondo. Il castello della famiglia Jenzenstein presso Praga ha tuttavia una denominazione ceca corrente: Jenštejn, ed è questa che userò.

La personalità di Giovanni di Jenštejn, eccezionale per intelligenza, cultura e opere prodotte, può servire come modello esemplare di gerarca di un paese dell’Europa centrale che entra in conflitto con il suo sovrano, rappresentante del potere secolare statale. Gerarchi di analogo tipo e destino non sono certo mancati neanche in altri paesi, basti ricordare l’inglese Thomas Becket. Giovanni di Jenštejn non è stato del resto il primo né purtroppo l’ultimo nelle terre ceche a dover affrontare un destino di esilio a causa delle proprie posizioni di principio. Allo stesso modo non è stato né il primo né l’ultimo dei gerarchi praghesi ad imprimere, con la propria fermezza e il proprio infelice destino umano, una svolta al corso della storia nel proprio paese.       

Giovanni di Jenštejn era il figlio primogenito dei uno dei nobili più influenti alla corte di Carlo IV,  re di Boemia e imperatore dei Romani. Tra le cose ovvie rientrano  quindi un’educazione scelta, dei vasti orizzonti e un’istruzione universitaria compiutasi tra Praga, Padova, Bologna , Montpellier e Parigi. Giovanni aveva scelto la via religiosa – nel servizio di corte aveva proseguito, dopo il loro padre, suo fratello minore -  e già nel 1375 era stato nominato vescovo di Meissen per volere di Carlo IV. Due anni più tardi, dopo l’abdicazione di suo zio, Giovanni Očko di Vlašim, era salito sulla cattedra metropolitana praghese; il pallium gli era stato portato a Praga dal legato pontificio Pileus da Prato, che aveva contemporaneamente portato anche il cappello da cardinale al suo predecessore.

            La scelta dell’allora trentaduenne Giovanni di Jenštejn come metropolita di Praga era dovuta ancora una volta alle valutazioni di Carlo IV e alle sue preoccupazioni per il futuro del paese.  Questo sarebbe stato assunto ben presto dal suo ancor giovane – appena sedicenne -  figliolo, Venceslao IV:  a questi l’imperatore aveva assegnato l’arcivescovo Jenštejn anche come cancelliere e quindi come primo consigliere e collaboratore. Alla morte dell’imperatore, avvenuta di lì a poco, Jenštejn, nuovo arcivescovo di Praga non ancora insediato, aveva profferito una delle due grandi prediche in occasione del funerale.

            Ma la collaborazione tra il re e il metropolita così come l’aveva immaginata Carlo IV si sarebbe realizzata solo per breve tempo. Il piuttosto viziato figlio dell’imperatore aveva ricevuto in dono un compito superiore alle proprie forze: aveva ricevuto il regno di Boemia e l’impero dei Romani all’inizio del grande scisma, e non sapeva governare; sopportava con sempre maggiore fatica i consigli autoritari del suo cancelliere e preferiva circondarsi di un ambiente intellettualmente e moralmente meno impegnativo, che non gli richiedesse tanto sforzo. Dobbiamo in questa sede tralasciare la questione di quanto sullo sfondo del modo di governare di Venceslao ci fosse magari un nuovo ma ancora non del tutto perfezionato sistema di governo diverso da quello carolino, un sistema che si appoggiava soprattutto sulle componenti sociali più basse, le città e la bassa aristocrazia. La tensione tra il re e l’arcivescovo era cresciuta in misura tale che nel 1384 Venceslao IV aveva privato Giovanni di Jenštejn della carica di cancelliere. Negli anni successivi il rapporto tra i due supposti collaboratori si era trasformato in una situazione di costante conflitto, che arrivava fino a intenzionali provocazioni nei confronti dell’arcivescovo da parte dell’entourage del re; il sovrano approvava, dapprima tacitamente, poi pubblicamente.

            Ma che tipo di uomo era Giovanni di Jenštejn e che tipo di arcivescovo? Un uomo colto, dotato e impulsivo, un uomo sensibile provvisto talento letterario e poetico, sincero e coerente, con tendenza all’ascetismo. Non era del tutto sano, e forse a ciò si collega anche la sua sensibilità. La grave malattia per cui gli autorevoli rappresentanti dell’Università di Montpellier (Johannes Jacobi, in seguito medico personale del re di Francia) l’avevano dato per perduto era comparsa per la prima volta (a quanto ne sappiamo) in un qualche momento dopo il 1371, al tempo dei suoi studi in quella città, e poi un’altra molto seria nel 1380 durante il viaggio in Germania con Venceslao IV. In quell’occasione non ci si aspettava che sarebbe guarito dalle febbri che lo avevano afflitto per due interi mesi. L’ultima grave malattia, quando ormai stava davvero per morire e gli erano stati somministrati i sacramenti, lo aveva colto dopo il primo ritorno da Roma nel maggio o nel giugno del 1390. Alla seconda malattia, quella del 1380, si lega la rigorosa conversione di Jenštejn a un modo di vita ascetico, e stando alla sua corrispondenza a partire da quel momento non lo abbandonerà la paura di una morte sfortunata. Di conseguenza prese a eseguire in maniera assolutamente coerente  i doveri derivanti dalla sua carica di arcivescovo, cosa che gli fu fatale.

            A quel tempo la diocesi praghese aveva un assetto di alto livello. Disponeva di una elaborata legislazione e di un apparato amministrativo funzionante compenetrato dal regolare svolgimento di sinodi diocesani – al tempo di Jenštejn, effettivamente, anche due volte l’anno –, aveva una fitta rete parrocchiale variamente coperta da un clero almeno in parte di buon livello; in alcuni centri cittadini o anche rurali la vita della diocesi si trovava sulla soglia di una seconda cristianizzazione. La cura di questa diocesi, la sua sicurezza esterna e l’ulteriore sviluppo della vita religiosa al suo interno divennero per Jenštejn un compito del tutto personale, su cui si concentrò completamente soprattutto dopo essere stato sospeso dalle funzioni di cancelliere. Nel tempo lo aveva ripetutamente formulato ricorrendo alla parabola del buon pastore, che ha cura delle sue pecore fino al limite estremo, in cui sacrifica per esse la propria vita.

            L’opportunità di difendere le sue pecore – la chiesa in Boemia e attraverso essa l’intera società – gli veniva data da quello che era il diritto ecclesiastico valido e riconosciuto e  Jenštejn, per sua natura piuttosto un teologo e un poeta che non un esperto di diritto, aveva cominciato, da solo e con l’aiuto dei suoi uffici esecutivi, a sfruttare rigorosamente i procedimenti giuridici. Pienamente convinto della legittimità del loro uso, non si curava troppo di procedere cautamente e “diplomaticamente“ ed era diventato il bersaglio in cui la parte avversaria vedeva la personificazione di quanto era d’ostacolo ai suoi successi. L’arcivescovo e il partito del re avevano smesso si capirsi, ciascuna delle due parti si muoveva nel proprio mondo di idee ed era prigioniera della proprie rivendicazioni, ciascuna parlava la propria lingua e il linguaggio dell’una non veniva recepito dall’altra. E non fu per l’ultima volta.

            Si trattava della “libertà della chiesa“ nel pieno significato di tale concetto. Per un verso il pomo della discordia era costituito dal patrimonio ecclesiastico come condizione dell’autonomia e della piena e indipendente funzione della chiesa nella società. Le sue rendite non dovevano solo dare da vivere al clero ma servire innanzittutto alla liturgia, all’istruzione, all’educazione, ai poveri e agli ammalati e così via, insomma ai compiti della chiesa riguardo alla società. Se quindi qualcuno si appropriava o in qualunque modo devastava un qualche bene dell’arcivescovo o comunque della chiesa, Jenštejn lo impediva e doveva impedirlo  non già con una controazione militare, bensi seguendo le vie che erano proprie al suo ufficio, ossia quelle del diritto ecclesiastico. Questo aveva i suoi procedimenti consolidati e una volta che li aveva messi in moto, doveva poi proseguire “senza riguardi“.

            Il partito del re partiva invece dalla convinzione che la maggior parte delle proprietà ecclesiastiche avessero la propria origine in una donazione regia e che il re fosse quindi autorizzato a sfruttarle sia materialmente che per mezzo del diritto di patronato, che veniva ormai scambiato per autorizzazione confirmatoria. Il re,  sia spontaneamente che per influenza del suo entourage, tendeva a diventare il signore unico e assoluto della chiesa in Boemia, in pratica ad escludere l’arcivescovo e la sua giurisdizione spirituale (non già la giurisdizione sacrale), analogamente a quanto cercava di fare suo cognato, il re inglese Riccardo II.  L’organismo ecclesiastico, proprio per la sua funzionalità, avrebbe dovuto trasformarsi in instrumentum regni. Da qui quel danneggiare i possedimenti ecclesiastici che era andato aumentando d’intensità fino a costituire aperta provocazione. A Jenštejn nella sua posizione non restava altro che battersi per la sua chiesa, col che andava mano a mano perdendo seguaci anche nelle sue stesse file. Alla fine poteva contare solo sui suoi collaboratori più stretti e sul pontefice, ma solo fino a un certo punto.

            A complicare la situazione c’era appunto lo scisma. Jenštejn era fermamente convinto della validità dell’elezione di Urbano VI, per il quale si era adoperato sotto tutti gli aspetti ancora in veste di cancelliere del re, e grazie a lui il regno di Boemia faceva stabilmente parte dell’obbedienza romana – anche se ogni tanto comparivano singoli fautori del pontefice di Avignone e anche se ogni tanto la corte di Praga, per il tramite dell’arcivescovo di Salisburgo, Pelhřim, trattava segretamente con la curia avignonese. Urbano VI doveva gratitudine all’arcivescovo di Praga anche da un punto di vista personale e sapeva bene quale sostenitore avesse in lui. Senza questo aspetto personale, la cosa vale anche per Bonifacio IX. Il papa di Roma aveva tuttavia bisogno, proprio per la situazione di sdoppiamento esistente nella chiesa, anche di colui che era stato eletto re dei Romani, quindi del re boemo Venceslao; non poteva rompere nemmeno con lui. Jenštejn se ne rendeva certamente conto, come si rendeva conto che la sua situazione era in un certo senso senza via d’uscita, ma non poteva fare marcia indietro.

            I piccoli danneggiamenti patrimoniali, tipo il divieto di navigazione sul fiume per le navi dell’arcivescovo (i maggiori possedimenti rurali dell’arcivescovo, Roudnice ma anche Helfenburg oppure Supí hora, erano direttamente oppure  in maniera sostanziale raggiungibili da Praga tramite il collegamento acqueo lungo l’Elba) oppure l’allontanamento del suo bestiame dal pascolo, cose che avvenivano già nella prima metà degli anni Ottanta, nel corso di un decennio  erano andati aumentando d’intensità fino ad assumere un aspetto di minaccia. Andavano anche assumendo un carattere del tutto personale, come quando il re rifiutò di accogliere l’invito dell’arcivescovo alla celebrazione organizzata in occasione della consacrazione dell’alto coro della nuova cattedrale (1386). La pluriennale controversia tra Jenštejn e il partito del re culminò con quattro vicende, o meglio conflitti, dell’inizio degli anni Novanta che ormai non rivestivano più un carattere tanto futile e di cui conviene occuparsi più in dettaglio.

            Ebbero inizio col fatto che, dopo un periodo di relativa quiete, nell’autunno del 1392 Jenštejn aveva osato a presentare al consiglio governativo dieci punti che riassumevano le denunce sulle violazioni della libertà di azione della chiesa in Boemia; questi erano stati considerati alla stregua di una denuncia al re e avevano sollevato una tempesta tra i suoi fautori. Ne era seguito ben presto un conflitto del tutto nuovo ed esasperato ad arte, il cui personaggio centrale era diventato l’importante ed abile finanziere del re, il viceciambellano Zikmund Huler. Dopo il pogrom degli ebrei praghesi nell’aprile 1389, molti di quelli che erano sopravvissuti avevano scelto il battesimo. Con ciò avevano però cessato di essere servi camerae regalis e per questo Huler, nell’interesse delle entrate regie, appoggiava un loro ritorno all’ebraismo. Aveva dichiarato pubblicamente che la fede ebraica era migliore di quella cristiana e il coerente Jenštejn aveva reagito citandolo a giudizio davanti al suo tribunale per sospetto di eresia. Ma Huler non si era presentato, aveva solo fatto sapere che sarebbe arrivato con duecento lancieri.  A quel punto a Jenštejn non aveva potuto fare altro che pronunciare nei suoi confronti, all’inizio di gennaio del  1393,  la scomunica in contumacia. Ciò aveva  irritato il re, che per rappresaglia aveva ordinato alle città di rinnovare il giuramento di fedeltà a Huler.

            Per il partito del re tutto faceva pensare che fosse arrivato il momento di spezzare o almeno indebolire in maniera sostanziale il potere dell’arcivescovo. Eliminarlo direttamente non si poteva, e neanche Bonifacio IX avrebbe destituito Jenštejn. Ma la diocesi praghese era eccezionalmente vasta, cosicché il tentativo di istituire sul suo territorio un altro vescovato in concorrenza poteva essere giustificato. Nell’entourage del re circolavano alcuni vescovi titolari che gli erano fedeli e che erano disposti ad assumere il ruolo di vescovo residenziale dell’eventuale nuova diocesi. A garanzia della sua esistenza vennero scelti nella Boemia occidentale i possedimenti del monastero benedettino di Kladruby presso Stříbro, il cui abate era ormai molto vecchio, talché tutto si presentava come un processo naturale. Solo che il convento, quando  ben presto il vecchio abate era morto davvero, aveva eletto un nuovo abate e aveva chiesto all’arcivescovo di confermarlo. Il 10 marzo 1393, allo scadere del termine fissato per presentare eventuali obiezioni, che non c’erano state, i vicari generali di Jenštejn avevano confermato nelle sue funzioni il neo-eletto abate. In cinque giorni quella che fino a quel momento era stata tensione tra il re e l’arcivescovo si era trasformata in atti di violenza che, nonostante i tentativi di negoziato, erano finiti con l’arresto dell’arcivescovo e di quattro personaggi importanti della sua cerchia. In circostanze non troppo chiare qualcuno aveva tempestivamente aiutato l’arcivescovo a fuggire e l’aveva nascosto, ma l’interrogatorio di due dei vicari generali più fedeli, Giovanni di Pomuk (Nepomuceno) e Nicola Puchník finirono col supplizio. Il primo dei due non sopravvisse alle torture e il suo corpo morente fu gettato nella Moldava da un ponte.

Ancora dopo il 20 marzo il re cercava l’arcivescovo a Praga, ma questi era riuscito segretamente a raggiungere il più sicuro dei castelli arcivescovili, quello di Supí hora. Il re aveva  proibito nuovamente qualsiasi navigazione sul fiume e a Praga il clero non poteva uscire di casa dopo il tramonto. Il terrore che si era instaurato a Praga aveva cominciato ben presto a risuonare cautamente nella pubblicistica e nelle prediche. Ma aveva segnato anche tutte le ulteriori trattative tra il re e l’arcivescovo. L’unica possibilità di successo di qualunque trattativa era adesso l’accettazione incondizionata delle rivendicazioni del re. Ma l’ormai completamente isolato Jenštejn non cedette neanche questa volta e con l’aiuto del primo signore del regno, Enrico di Rosemberg, partì il 23 aprile 1393 in direzione di Roma, per recare notizia di questi avvenimenti a Bonifacio IX. Trattò con questi sul finire di giugno a Perugia e gli presentò una descrizione scritta, soggettivamente stilizzata e composta durante il viaggio, di tutto quello che era accaduto tra lui - come arcivescovo e come uomo – e l’imperatore. Lo scritto termina con la richiesta al papa di aiutare l’arcivescovo e il clero in Boemia ad ottenere giustizia e ad eseguire liberamente i doveri derivanti dal proprio ufficio. Questi Acta in curia Romana ebbero poi una versione ufficiale, più succinta e stilizzata in senso obbiettivo, che chiedeva che il re venisse perseguito penalmente.  Non ebbero risultati concreti, né potevano averne - c’era lo scisma - e del resto questa volta neanche Jenštejn aveva sfruttato fino in fondo tutte le possibilità del diritto ecclesiastico e dopo il 20 marzo non aveva lanciato l’anatema sul re.

            Dalla curia Giovanni di Jenštejn aveva fatto nuovamente ritorno in Boemia. Muta soddisfazione gli avevano probabilmente procurato gli avvenimenti dell’anno successivo,  il 1394, quando l’alta aristocrazia del regno di Boemia, insoddisfatta del governo di Venceslao IV, si era alleata e aveva fatto prigioniero il re. Nelle sue richieste di negoziazione presentate al re essa aveva ripreso una parte notevole delle accuse di  Jenštejn al re dell’autunno 1392, benché Jenštejn stesso non si fosse unito ai nobili. Né gli atti violenti né quelli politici rientravano nel suo stile. Egli sapeva bene che l’ostacolo alla distensione dei rapporti con l’imperatore e con la sua cerchia era rappresentato soprattutto dalla sua stessa persona e poichè aveva dato fondo a tutte le sue risorse, aveva col tempo rinunciato alla propria carica in favore di suo nipote Olbram di Škvorec; lo aveva consacrato egli stesso il 2 luglio 1396 e poi si era ritirato completamente dalla vita pubblica. Aveva vissuto dapprima in Boemia settentrionale, nel castello di  Helfenburk che aveva conservato, e si era concentrato sulla produzione letteraria, ma la situazione economica sul finire del 1398 lo aveva costretto di nuovo a recarsi a Roma. Aveva preso con sé anche il manoscritto miniato con la trascrizione delle sue opere letterarie, ivi compresi i succitati Acta i curia Romana. Aveva chiesto al papa di affidargli il compito di vescovo missionario. Bonifacio IX aveva invece nominato quest’uomo cinquantunenne enormemente stremato alla carica di patriarca di Alessandria. Ma dopo soli due mesi, il 17 giugno 1400, Jenštejn era morto a Roma. Il manoscritto con le sue opere andò a far parte delle proprietà pontificie e ancor oggi è parte integrante del fondo Vat.Lat. della Biblioteca Vaticana. Solo un mese e mezzo dopo la morte di Jenštejn i principi elettori deposero Venceslao IV dal trono romano. Lo motivarono, tra l’altro, anche col fatto che non aveva protetto la chiesa e aveva ucciso dei religiosi. Già intorno al 1402 il successore di Jenštejn, Olbram di Škvorec, invitava Petrus Clarificator, agostiniano di Roudnice e amico intimo di Jenštejn, a scriverne la biografia. Questa Vita tende marcatamente all’agiografia.

            La sostanza del conflitto di Jenštejn per la “libertà della chiesa“ era costituita quindi dal libero uso dei beni ecclesiastici come condizione per lo svolgimento dei compiti della chiesa  e dalla sua libertà d’azione, resa possibile da una nomina vescovile indipendente dei beneficiati e dalla loro esenzione giudiziaria. La lotta per tutto questo, pur se qui in abito medievale, ricorda vistosamente le situazione nelle terre ceche (e non solo) nel XX secolo. Si è sempre trattato di un punto nevralgico, facilmente sfruttabile sia nel senso della superiorità del potere sovrano statale sia, al contrario, nel senso dell’enfatizzazione dell’ideale della povertà della chiesa.  È stato dimostrato anche in Boemia a neanche due decenni dalla morte di Jenštejn. Ha quindi il concetto di libertà della chiesa così come realizzato all’inizio del medioevo una sua legittimità?

            Non l’ha certamente nel semplice senso del potere, ma l’ha relativamente al suo scopo e alle sue conseguenze, ovvero a quello a cui queste libertà esteriori – che a volte suscitano un’avversione primitiva e superficiale – dovevano servire. Le “libertà“ realizzate costituivano la condizione che permetteva alla chiesa di pervadere la società di spirito cristiano, di cambiarla dal punto di vista religioso, culturale e civile; di creare da essa il mondo della cultura e della civiltà occidentale  con i suoi valori di libertà e di responsabilità, di coraggio e di  correttezza e potremmo ben continuare ancora. Nella loro sostanza le “libertà“ hanno contribuito quindi a creare i lati positivi e il carattere stesso dello sviluppo europeo. Ma ciò avveniva a condizione era che non diventassero esse stesse il fine, bensi che tale forma venisse usata per compiti più sostanziali. Resta quindi da soffermarsi sulla questione di quanto la lotta di Jenštejn con il re si sia appunto esaurita con la semplice lotta, oppure se dietro ad essa sia visibilmente e durevolmente rimasto anche qualcosa di quel contenuto religioso-culturale a cui le “libertà“ preparavano la strada.

            Di Jenštejn in campo teorico e letterario si sono conservati, oltre alle lettere personali, 18 tra trattati teologici e politici e omelie. La maggior parte ha visto la luce a partire dal 1390, ma le singole opere coprono in maniera uniforme il suo intero episcopato. Finora sono state pubblicate in una scelta limitata e solo la conoscenza completa del pensiero dell’arcivescovo dall’inizio del suo episcopato può dimostrare quanto fosse intensamente presente nel suo atteggiamento esistenziale la componente spirituale della sua azione.

            Ma la possiamo cercare e trovare anche sul piano della sua attività pratica nelle questioni-chiave di gestione della diocesi. Nel cercare una risposta cerchiamo di astrarre dal brusco aumento dell’istruzione e del livello culturale e religioso della società ceca, sul cui sfondo si situa anche il ruolo della chiesa ma che sono rappresentati già dall’attività dell’università, che aveva proseguito indipendentemente dalla volontà dell’arcivescovo.  

            Tra le vicende eccezionali di carattere religioso e socio-culturale del periodo di Jenštejn ce ne sono due o tre che non sarebbero potute accadere senza la sua iniziativa, anche se questa teneva sicuramente conto della maturazione di quei determinati bisogni nella società. Una di queste è l’eliminazione nei possedimenti arcivescovili del diritto di incameramento delle proprietà rurali per morte del proprietario, alla quale si arrivò per iniziativa personale di Jenštejn. Era stata preceduta da una multilaterale polemica giuridica e teologica da lui suscitata, che si basava sulle prove della naturale uguaglianza di tutti gli uomini e della loro uguaglianza davanti a Dio (compresa la parità tra uomini e donne, per questo la proprietà rurale poteva essere ereditata anche dalle figlie femmine). L’eliminazione  avvenuta in in Boemia era la prima in assoluto e solo dopo alcuni decenni l’incameramento aveva cominciato ad essere soppresso anche in altri domini.

            Un altro esempio del fatto che neppure in tutte le sue lotte esterne Jenštejn aveva perso di vista il contenuto dei suoi doveri spirituali è rappresentato dalla sua decisione, accolta dal sinodo del giugno 1391, sulla possibilità di somministrazione frequente, anche quotidiana, dell’eucarestia ai laici anche al di fuori delle pie comunità. Anche in questo caso non si trattava affatto di una decisione affrettata: era stata preceduta sia da uno sviluppo piuttosto lungo nella società  - tali tentativi erano comparsi isolatamente in Boemia già a partire dagli anni Sessanta del XIV secolo, quando sucitavano ancora il sospetto di eresia – quanto da una relativamente lunga polemica teologica.

            Possiamo infine citare anche un terzo atto di Jenštejn, ancora valido in tutta la chiesa, ossia la definizione e l’introduzione della festa della Visitazione. Per la sua introduzione nella diocesi di Praga Jenštejn aveva scritto lui stesso degli inni e compilato un officium, aveva ottenuto la sua approvazione da parte di UrbanoVI e nel 1386 aveva proclamato la festività.

            Nei primi due casi, che riguardavano direttamente la sola Boemia, si trattava allora di decisioni notevolmente rivoluzionarie. Entrambe dimostrano chiaramente che per Jenštejn non si trattava solo della posizione di potere della chiesa. Difenderne la libertà significava per lui adempiere ai doveri del proprio ufficio, in quanto solo queste libertà creavano l’ambito, costituivano l’ambiente in cui poteva attecchire il messaggio evangelico. Jenštejn voleva veramente essere (e fu) un buon pastore che si prendeva cura delle sue pecore. Voleva esserlo soprattutto in senso interiore, ciononostante nella memoria storica è prevalso il più evidente aspetto della lotta per le “libertà della chiesa“ Un buon pastore lo è stato nonostante il fatto che a dare la vita per le sue pecore non sia stato lui ma il suo vicario. Per questo i monumenti nepomuceni di Roma - a Ponte Milvio, a Santa Maria dell’Anima, a San Lorenzo in Lucina etc. -  ricordano indirettamente anche l’arcivescovo praghese Giovanni di Jenštejn, che come molti dei suoi predecessori e successori dovette morire e trovare il luogo del suo eterno riposo lontano dalla patria, qui a Roma o nelle  immediate vicinanze (il vescovoAndrea in Casamari, kardinale Josef Beran nella basilica di S. Pietro).

 

 

 

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